I mattini passano chiari/e deserti. Così i tuoi occhi/s’aprivano un tempo. Il mattino/trascorreva lento, era un gorgo/d’immobile luce.
Taceva. Tu viva tacevi; le cose/vivevano sotto i tuoi occhi/(non pena non febbre non ombra)/come un mare al mattino, chiaro.
Taceva. Tu viva tacevi; le cose/vivevano sotto i tuoi occhi/(non pena non febbre non ombra)/come un mare al mattino, chiaro.
Dove sei tu, luce, è il mattino./Tu eri la vita e le cose./In te desti respiravamo/sotto il cielo che ancora è in noi.
Non pena non febbre allora,/non quest’ombra greve del giorno/affollato e diverso. O luce,/chiarezza lontana, respiro/affannoso, rivolgi gli occhi/immobili e chiari su noi.
E’ buio il mattino che passa/senza la luce dei tuoi occhi.
30 marzo 1950
Non pena non febbre allora,/non quest’ombra greve del giorno/affollato e diverso. O luce,/chiarezza lontana, respiro/affannoso, rivolgi gli occhi/immobili e chiari su noi.
E’ buio il mattino che passa/senza la luce dei tuoi occhi.
30 marzo 1950
"A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline."
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